Creatura ultraterrena automunita e vestita di nero

Scena. Venerdì, mattina presto. Cielo sereno. Che strano, nella via di fronte a casa non c’è nessuno, tranne me. Mi sto avviando verso l’auto, quando arriva una di quelle mercedes lunghe da carro funebre.

È nera, lucida, perfetta. Brilla al sole. Ne esce un uomo altissimo e sorridente, in divisa scura. Impeccabile.

Sembra quasi una creatura ultraterrena.

Mi guarda.
Mi viene incontro.

E punta proprio verso di me, deciso, dritto, come se mi conoscesse bene.
 
Nell’aria risuonano canti gregoriani. Oddìo.

Lui si avvicina, e mi saluta, gentile:
– Buongiorno.
– Ehm. Buongiorno a lei.
– Eccomi qua. La cercavo.
– A me?
– Già. E l’ho trovata. Ci siamo, dunque. [Mi indica l’ingresso posteriore al suo veicolo].
– Ci siamo, dice?
– Purtroppo sì. È pronto?
– Come sarebbe a dire? Pronto per cosa?
– Sì, dobbiamo andare. [Un’occhiata al polso] È l’ora.
– Ma come? Così, all’improvviso? E così presto?
– Presto mica tanto. Ma sono stato puntuale, no?
– Mah, non saprei.
– Puntualissimo, le assicuro.
– Sarà. Però… Non credevo accadesse in questo modo.
– Lo so, è strano. Un momento difficile. Coraggio. Allora, andiamo?
– Andiamo, cosa vuole che le dica.
– Sia forte.
– Eh, forte. È una parola.
– Almeno non ha sofferto.
– Bè, no, quello no. Proprio per nulla.
– Lo so. Succede, a volte. Uno non se l’aspetta, e invece…
– E invece…
– Ma la capisco. Forza, però, andiamo. È tutto finito.
– Tutto finito. Che debbo fare adesso? Mi sdraio nel… bagagliaio, là dietro?
– Ah ah. Suvvia, io ci sono abituato, ma lei, le pare questo il momento di far lo scemo?
– No, no, per carità.
– Insomma. Prima la bara, no?
– Certo, la bara.
– Deve stare nella bara. E solo dopo in macchina.
– Ah, giusto.
– Dov’è?
– Dov’è cosa?
– La salma.
– La salma… sarei io?
– Ma cosa caz… Scusi, eh, ma lei non è il nipote di (rovista in tasca, estrae un foglietto, lo legge) “Pizzagalli fu Domenico di anni 107”, deceduto iersera in questa via al civico…
– Ma dai, il signore del secondo piano! Poverino. È mancato?
– E sì. Siamo venuti qui a prenderlo.
– Comunque no, non sono il nipote. Anzi, io, a dire il vero, stavo solo uscendo di casa.
– Oooh, mi scusi. Credevo fosse un parente.
– No, no, passavo di qui per caso.
– Ci deve esser stato un malinteso. Mi perdoni. Che gaffe.
– Non importa, non importa. Arrivederl… Aehm, volevo dire, buona giornata, e buon lavoro, ecco.

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Le vacanze di Nietzsche a Camogli

Sono forse pochi (molto pochi) coloro a cui interesserà sapere che nel 1886 Friederich Nietzsche trascorse alcune settimane nella dépendance dell’hotel Kursaal d’Italia, sulle alture di Camogli, nel territorio della frazione di Ruta, a pochi chilometri da Genova. Nietzsche alloggiava (pare) in una stanza piuttosto spoglia: era infatti uomo parsimonioso, oltre che notevole fancazzista: giustificato dai problemi di salute, trascorse buona parte dell’esistenza, dai trentacinque anni in poi, in vacanza, come un prepensionato, a scrivere libri. Libri che, almeno fino a quando lui era a questo mondo anziché nell’altro, quasi nessuno lesse. Le sue opere riscossero l’immenso successo soltanto dopo che il loro autore perse del tutto il senno, cosa che accadde a partire dal 1889. Pertanto è lecito dire che Nietzsche non ebbe mai la benché consapevolezza della sua celebrità (neppure in vita, figuriamoci da defunto).

Prima di impazzire, dunque, N. condusse i suoi anni in modo pacifico: non era ricco ma aveva dimestichezza con l’accontentarsi di pasti frugali e di camerette affittate a buon prezzo.

Veniamo al dunque. Se leggete queste righe, o siete pazzi (il che vi avvicina al N. del 1889) o siete davvero interessati a sapere dove cappio si trovasse l’abitazione di N. quand’egli soggiornò a Ruta di Camogli (Ge) nell’anno 1886.

In tal caso, sappiate che l’edificio si trova ancora adesso all’angolo fra l’Aurelia e via Prione, cioè qui. Non è più un albergo, né è visitabile, a meno che non conosciate gli attuali inquilini.

All’esterno, per un certo periodo, rimase affissa una targa a commemorare l’illustre cliente dell’hotel. L’insegna riportava tuttavia informazioni scorrette sulle date (nel 1888-1889 il filosofo era altrove: l’anno giusto è, come già detto, il 1886).

Parecchio tempo dopo, alla fine della Seconda guerra mondiale, quando il pensiero di N. era da molti associati al nazismo, la lapide fu levata dagli stessi proprietari della pensione. In realtà N. non poté conoscere mai fascismi e nazismi, essendo egli bello che morto alcuni decenni prima del loro avvento, ma su questo punto politico gli argomenti si fanno più complessi.

Poco importa. Questo qui sotto è l’ex hotel Kursaal, come si presenta oggi, fotografato poco fa con un telefono dal vostro umile scrivano.

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Sui non buoni rapporti fra Schopenhauer e la sua vicina di pianerottolo

Il mio vicino di casa del piano di sopra, persona per nulla silenziosa, mi fa pensare a Schopenhauer.
Perché? Mica gli assomiglia. Tutt’altro.
Per spiegarlo, ricomincio a prendere appunti qua sopra, rievocando un episodio cruento, accaduto davvero, ma molto, molto tempo fa.

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Il signore qui ritratto è appunto Arthur Schopenhauer, e quando scriveva, detestava essere disturbato. Il geniale filosofo dell’ascetismo era, nel privato, un signore scorbutico, misantropo, e perciò scapolo, propenso alla lite nelle (rare) occasioni sociali cui si degnava di partecipare. Ma era a suo agio nel trascorrere intere giornate da solo, a scrivere in casa in santa pace, nel silenzio più perfetto, senza dover domandare a inesistenti familiari di stare zitti o di abbassare il volume del televisore.

E tuttavia, anche in tale solitaria condizione, non sempre Schopenhauer, odiatore dei suoni emessi dal prossimo suo, riusciva a trovar pace fra le carte.

Ora, proviamo a immaginare la situazione. Siamo a Francoforte, Germania, in un imprecisato giorno della prima metà dell’Ottocento, all’interno di uno stabile (questo?). Per la precisione, siamo nel salotto di Schopenhauer, con lui presente, di spalle.

Il padrone di casa è, come spesso gli accade, solo, seduto al tavolino. Il salotto gli serve anche da studio. Particolare importante: una delle porte di questo ambiente è quella principale, d’ingresso, e quindi dà sul pianerottolo e sulle scale del condominio.
Schopenhauer è dunque assiso allo scrittoio. Se ne sta lì, con le sue straordinarie basette bianche e irsute, la penna in mano, lo sguardo perdutamente (e giustamente?) incazzato verso il foglio bianco, il pensiero (altrettanto incazzato) rivolto contro la volontà dell’universo nel perseverare a esistere e divenire.

Lo scrittore filosofo forse cerca l’ispirazione per un nuovo saggio. Ma qualcosa non va. Qualcosa lo distrae, gli impedisce la concentrazione. È un rumore, un mormorio. Cos’è? Da dove arriva? Ah sì, ecco. Proprio davanti alla porta del suo appartamento, sul ballatoio, qualcuno sta conversando.

Cambio dell’inquadratura; ora siamo fuori dall’appartamento di Schopenhauer: una signora, una condomina in età, sta chiacchierando con una conoscente, un’amica o una parente venuta a visitarla e ora sul punto di accomiatarsi. Ma i saluti durano più del previsto, e anche sull’uscio le due si ostinano a parlare del più e del meno, peraltro a voce abbastanza alta. Non è la prima volta che accade. Schopenhauer ricorda di essersi già lamentato della vicina poco silenziosa con l’amministratore di condominio, senza risultato.

Torniamo all’interno di casa Schopenhauer: lui, l’uomo più misogino, più colto e più manesco del caseggiato freme, ma rimane seduto, senza protestare, senza bussare sul muro. Non intende esibirsi nella solita piazzata del filosofo maleducato e rompiballe. Tra sé e sé, pensa delle parolacce, ma prova ancora a scrivere qualcosa sul foglio, nella speranza che la conversazione là fuori finisca presto e lui possa riprendere il filo della riflessione.

Eppure i convenevoli tra le due non sembrano intenzionati a terminare, anzi, il cicaleccio prosegue inarrestabile e vano ancora un bel po’.

Così, a un certo punto, Schopenhauer non ce la fa più. Furibondo, scatta dalla sedia, afferra la maniglia, si fionda sul ballatoio e, senza salutare, senza aprir bocca, scaraventa la disturbatrice giù per due rampe di scale.

L’altra signora lo guarda terrorizzata mentre lui rientra in casa sbattendo la porta. In basso, molti gradini più in basso, la vicina guaisce ferita e chiama soccorsi. Che però sono in ritardo.

Epilogo. La signora finisce all’ospedale. Poi, quando esce, denuncia Schopenhauer, che perde la causa ed è costretto a un risarcimento mensile per vent’anni, fino alla morte della vecchia.

Per questo, ogni volta che sento gli urletti molesti del mio vicino di casa che gioca alla playstation, tifa l’Inter guardando Sky o sgrida la moglie, penso a Schopenhauer.

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Grandi monumenti che però ci spiace ma non esistono: prima puntata

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Ecco la Torre di Tatlin, progettata nel 1919 dall’architetto russo Vladimir Tatlin su commissione del Dipartimento di Belle Arti e, si dice, di Lenin stesso.

La torre doveva essere alta 400 metri, cioè 100 più della Torre Eiffel. Sarebbe stata quindi il più grande monumento dell’epoca. L’inaugurazione era prevista per il 1921.

Ma la torre non fu mai realizzata. Per due motivi:
a) per come era stata progettata, non sarebbe mai stata in piedi;
b) si scopri che i costi di costruzione erano esorbitanti.

Quello qui sopra è, infatti, un fotomontaggio.

Ma ecco un disegno della torre costruttivista ma non costruibile:

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Di quando Gaudì venne investito da un tram

Il 7 giugno 1926, a Barcellona, il celebre architetto Antoni Gaudì, mentre andava al lavoro, fu investito da un tram.

Gaudì stava percorrendo a piedi la Gran Via de les Corts Catalanes verso il cantiere della Sagrada Familia quando, per distrazione, attraversò i binari senza guardare e venne così travolto da uno dei primi tram in attività a Barcellona. A sua discolpa aggiungiamo che in effetti i pedoni, a quell’epoca, non erano abituati a doversi preoccupare di poter finir sotto un treno mentre passeggiavano. Ma tant’è.

Subito dopo l’incidente, Gaudì, svenuto, fu soccorso dal tramviere e da alcuni passanti. Però nessuno di loro lo riconobbe. Come mai? Gaudì era già allora il più celebre architetto della città e della Spagna intera, tuttavia, per modestia, evitava di comparire sui giornali e di farsi fotografare: pochissimi sapevano quale faccia avesse. Per di più Gaudì, scapolo, viveva solitario come un asceta. E soprattutto era solito vestirsi da pezzente. Il maestro del modernismo, malgrado il buon stipendio, nei costumi perseguiva l’umiltà, come voleva la morale cattolica alla quale era devoto. Non badava affatto all’aspetto, era assai trasandato nell’abbigliamento, motivo per cui fu preso per un accattone. Inoltre girava sprovvisto di documenti, il che complicò ancor di più la sua identificazione.

Un medico, dopo aver assistito alla disgrazia da una finestra, accorse sul luogo dell’impatto. Visitò (in maniera piuttosto sbrigativa) quel che restava di Gaudì, non gli mise manco un cerotto e disse che per quel mendicante c’era poco da fare: ordinò di condurlo all’ospedale dei poveri, poi ritornò al suo studio.

L’abito non fece il monaco: qualcuno fra gli astanti chiese a un tassista se comunque, e per favore, poteva trasportare il ferito al pronto soccorso, ma il tassista rifiutò per paura che la corsa non gli potesse essere pagata. Soltanto diverse ore dopo, dunque, Gaudì arrivò malconcio all’ospedale dei poveri.

Nei giorni successivi il cappellano della Sagrada Familia, per caso in visita all’ospedale, si imbattè incredulo in quel relitto privo di cure e di coscienza, e dichiarò che era, seppur ancora per poco, Gaudì.

Allora si ipotizzò di trasferirlo nell’ospedale dei ricchi e salvarlo. Ma la scoperta dell’errore era avvenuta troppo tardi, il tempo stava scadendo. Gaudì, oramai spacciato, spirò il 10 giugno, dopo tre giorni di agonia.

Per commemorare la sua surreale scomparsa, si indirono i funerali più solenni, con tutta Barcellona in piazza.

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Sulla partecipazione di John Cage a “Lascia o raddoppia” in qualità di esperto di funghi

Vale la pena ricordare ancora una volta che nel 1959 l’immenso John Cage, compositore di musica d’avanguardia estrema, partecipa a “Lascia o raddoppia” come concorrente esperto di funghi. Durante le trasmissioni Cage esegue anche alcuni pezzi del suo repertorio. Nella foto mostra a uno scettico Mike Bongiorno gli strumenti musicali che userà nel prossimo brano: una vasca da bagno, due radio a transistor, un frullino, un pianoforte, un gong, un bollitore elettrico.

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Due mappe geografiche proustiane

Due mappe geografiche desunte dall’opera più nota di Marcel Proust, modestamente, e dalla di lui esistenza nel reale (peraltro come anche gli studenti di liceo sanno, le due vicende si sovrappongono in controluce). Realizzazione della mappa a cura del vostro sempre più inane compilatore (si ringrazia il sito marcelproust.it per aver fornito utili informazioni). La prima carta geografica è quella di Venezia, ove Marcelletto soggiornò due volte, una in vacanza con la mamma, l’altra da solo. Il narratore della Recherche è a sua volta un grande ammiratore della città e la visita nel quinto volume dell’opera, pure lui accompagnato dalla mamma. Cliccare sui pallini rossi, prego.

L’altra città di cui produco questa piccola ricerca scolastica è Parigi, naturalmente presente sia nella vita sia nel libro. In questo caso le didascalie sono spesso un mashup di Marcelproust.it e Wikipedia. Ecco qui sotto il risultato. Buona passeggiata. Sì, bisogna cliccare sui puntini rossi.

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Bruegel on the beach

Guardando quest’opera di Bruegel da sempre mi riconosco nel tizio scalzo che trasporta un pesce tenendolo in bocca, in alto a sinistra. Notevoli il padre in barca che ammonisce il bambino (“Ecco come va il mondo”) e il pesce volante che canta, in alto al centro. Tuttavia non mi è del tutto chiaro cosa sia accadendo sull’isola dove un pesce arenato affronta un esercito, né come possano esistere coltelli delle dimensioni di quello usato dal lavorante a sinistra.


(Acquaforte da “Die großen Fische fressen die kleinen”; il disegno originale, come già detto, è di Pieter Bruegel I)

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Idee per aziende

Idee per prossimi business: fondare un ente di beneficenza che si dedichi esclusivamente alla raccolta del 5 per mille promettendo però ai contribuenti di spendere l’intero ammontare degli introiti ricavati da tale raccolta in ulteriori campagne pubblicitarie per chiedere ai contribuenti il 5 per mille.

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Questo è un luogo tranquillo

Ricevo ancora (poche) lettere di proteste da gente offesa perché la programmazione editoriale di questo blog si dirada sempre più. (Pochissime lettere, per la verità. Per lo più si tratta di pochi parenti preoccupati più per il mio stato di salute che della pubblicazione di contenuti).

Mi spiace, ma questa è una strategia. Ambisco infatti a trasformare questo ambiente in luogo tranquillo e quieto ove pochi sparuti girovaghi possano rifugiarsi dalla velocità e dal baccano che imperversa nel resto dell’Internet e del pianeta in generale. Un luogo vuoto dal fracasso di informazioni superflue, opinioni non richieste, commenti ad alta voce, battute poco divertenti, notizie sempre straordinarie di cui, a pensarci bene, non ce ne dovrebbe fregare un fico secco.

Un luogo dove non accade nulla.

Solo silenzio. E pace.

In qualche modo, qui stiamo erogando un servizio diverso, che altrove non è offerto. E questo dovresti apprezzarlo.

Immagina, per esempio, una sala cinematografica nella quale, dopo aver pagato il biglietto, si entra, ci si siede in una comoda poltrona, si chiacchiera con il vicino di posto. Le luci si abbassano, ma dopo però non succede proprio niente. Non c’è alcun film da vedere. Si sta lì, nel buio, per due ore, zitti. Senza la preoccupazione di seguire una trama, di dover per forza apprezzare un’opera altrui, di rimanere svegli. Se qualcuno bisbiglia, altri gli comandano di tacere.

Oppure, pensa uno spettacolo teatrale: anche in questo caso siamo in sala, comodamente seduti di fronte al sipario calato – peraltro calato a nascondere un palco vuoto, su cui nessuno ha intenzione di rappresentare alcunché. A un certo punto, un signore ancora ignaro della prassi, si alza, chiede al bigliettaio se sa quando comincia lo spettacolo, ma quello gli risponde “Guardi che è già iniziato da due giorni”.

Oppure un romanzo. Lo apri, ti appresti ad affrontarlo, a cercare di capirlo, ad appassionarti. E invece, sorpresa: tutto ciò non è necessario, perché il romanzo è privo di trama, di personaggi, persino di testo. Non c’è scritto niente. Sì, magari ci si annoia un pochino, ma accidenti come è riposante. Soprattutto per la vista, oltre che per la mente. Vien quasi voglia di tornare a leggerlo tutte le sere.

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